Prefazione di A. Moravia a “16 Ottobre 1943” (edizione del 1945)

Ho avuto l’occasione di prendere in esame il libro 16 Ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, un racconto che narra la deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma, avvenuta nell’emblematica data che dà il titolo all’opera. Le modalità quasi cinematografiche  e corali della narrazione, la grande capacità espressiva e l’occhio critico e attento di Debenedetti rende le poche pagine di cui è composta il libro davvero straordinarie.

Vorrei qui postare la straordinaria prefazione che Moravia scrisse per l’edizione del 1945. Lo faccio perché ho avuto davvero molte difficoltà a trovare questo testo su internet, e ho dovuto ricostruirlo integrando alcuni appunti a degli spezzoni trovati qua e là. In occasione della giornata della memoria voglio proporlo qui sul mio Blog, in modo che possa essere trovato facilmente da chiunque lo ricercasse nel web. E’ una prefazione davvero significativa e non dovrebbe essere accessibile solo a chi possedesse la rara edizione del 1945.

Inutile dire il libro è assolutamente consigliato.

Buona lettura.

Nel 1938 l’assurdità, sempre presente sotto le dittature, entrò decisamente nella mia vita con le cosiddette leggi per la difesa della razza. Mio padre era ebreo. mia madre, che si chiamava de Marsanich, non lo era. noialtri figli eravamo battezzati. L’assurdità, dunque, prese il nome di ‘discriminazione’. Eravamo. come figli di padre “giudeo” e di madre “ariana” e inoltre battezzati, “discriminati”. ossia assolti. in certo modo, dal delitto di lesa razza commesso nascendo. Non basta, però. L’assurdità volle che di li a tre anni, mio fratello, tenente del genio in Africa, saltasse su una mina morendo a causa di una guerra che, appunto. era stata scatenata per imporre definitivamente al mondo intero l’assurdità medesima. Non basta ancora. Sempre a causa dell’assurdità, mia madre si mise a fare le pratiche per cambiare il nostro nome ‘giudaico’ in altro ‘ariano’. precisamente quello della mia nonna materna. Alle mie obbiezioni mia madre, con buon senso, rispondeva che in simili frangenti un nome ne valeva un altro. Finalmente, discriminato ma pur sempre sospetto. mi fu proibito di firmare nei giornali con il mio nome. Scelsi allora il trasparente pseudonimo di Pseudo: in quegli anni, per motivi collegati con il fascismo, la mia identità si faceva ogni giorno più incerta, più problematica. Cadde il fascismo, seguì il periodo sbaclogliano’. scrissi articoli contrari al passato regime sul Popolo di Roma diretto da Corrado Alvaro. Quindi. l’8 settembre, fascisti e nazisti tornarono: e allora cominciai a rendermi conto che l’assurdità, dopo essere stata per molto tempo una specie di limbo angoscioso, stava adesso diventando l’inferno che infatti era. In altri termini cominciai a provare il sentimento di apprensione che in regime di terrore assale tutti coloro che non sono o non si sentono ‘in regola. lo non ero in regola in alcun modo: né razzialmente, né politicamente, ne culturalmente.
D’altra pane. anche se l’avessi voluto, non avrei potuto essere in regola: non potevo inventarmi un nonno ariano, non potevo credere nel fascismo. non potevo infine non scrivere come scrivevo. Ero irrimediabilmente ‘diverso’. Una di quelle mattine, passando per Piazza di Spagna, incontrai un giornalista straniero, membro del Circolo della stampa estera, il quale mi avverti che ero sulle liste di coloro che in un prossimo futuro si aveva intenzione di arrestare e deportare in Germania. Tornai subito a casa e dissi a mia moglie che dovevamo scappare al più presto. Mentre mettevo in una valigia il necessario per la fuga, ecco, il telefono squilla. Stacco il ricevitore, lo porto all’orecchio, sento una voce non precisamente amabile che domanda: “Parlo con il traditore Moravia””. Cosi ‘diverso’, in pochi giorni ero diventato “traditore”. Giusto anche questo. Non importa dire qui come me la cavai. Quello che vorrei invece tentare di spiegare è la natura del sentimento di apprensione sempre più fonda e angosciosa che provavo in quei giorni. Ho detto che era il sentimento che. in regime di terrore, prova chi sa o teme di non essere in regola. Ma il terrore esattamente cos’è? Secondo me il terrore consiste nel venir meno delle istituzioni che stanno alla base della nostra identità e nella sostituzione dolorosa e difficoltosa di quesCidentità con l’anonimo e indifferenziato istinto di conservazione.- lo mi sentivo, insomma, come una bestia in trappola; sentivo che non ero più una persona. un individuo, un uomo bensì un nodo di esistenza minacciata. Se avessi avuto tempo c gusto per la riflessione, avrei certamente riconosciuto in questa riduzione della mia identità a mero dato biologico, una forzata regressione alla situazione naturale. Infatti il terrore è la condizione normale della natura. Per esempio, le mandrie di zebre che si vedono pascolare in Africa, tranquille e serene. in realtà sono “terrorizzate”. Al minimo indizio di pericolo, tutta la mandria partirà, in massa, al galoppo. L’uomo ha cercato di abolire il terrore, con la creazione di istituzioni. Il venir meno delle istituzioni ingenera l’assurdità, la quale a sua volta ripiomba l’uomo, incredulo e inorridito, nell’antico terrore naturale. Perché introduco nella prefazione a 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, quest’accenno autobiografico? Perché, sul punto di parlare della retata di ebrei effettuata dai nazisti a Roma. mi accorgo che non sarei onesto se nascondessi che anch’io sono passato attraverso la prova del crollo delle istituzioni, della scomparsa dell’identità e della ricaduta, sia pure per poco. nella situazione di natura. Anelli° insomma ho conosciuto la persecuzione. cioè l’ingiustizia attiva e zelante. Cosi, ripeto, sarebbe poco onesto nasconderlo. fingendo la serenità del prefatore ‘al di sopra della mischia. Equivarrebbe in certo modo a rifiutare la mia solidarietà. sia pure dopo venticinque anni, agli sventurati che in quella lontana mattina di ottobre le SS di Kappler arrestarono per spedirli a morire nei forni crematori dei campi di sterminio”. Il piccolo libro di Giacomo Debenedetti vuol essere la cronaca al tempo stesso commossa ed esatta di quella terribile mattinata. Ma bisogna intendersi sul carattere del libro. Nella “nota” premessa all’edizione del Saggiatore, si parla, a proposito di 16 ottobre 1943, della Colonna infame di Manzoni e del Giornale della peste di Defoe. Il confronto regge soprattutto se riferito alla sostanza del libro. Analogamente a Defoe e a Manzoni. Debenedetti descrive una calamità pubblica, imprevedibile e impreveduta in quanto immeritata. La peste, materiale in Defoe e in Manzoni, diventa ideologica in Debenedetti. La somiglianza tra il morbo e l’ideologia, ambedue irresistibili e di rapidissima propagazione, si è imposta a più di uno scrittore: basterà qui ricordare La peste di Camus e il racconto L’epidemia del sottoscritto. D’altra pane la coralità della cronaca di Debenedetti costituisce un altro punto di somiglianza con i libri di Defoe c di Manzoni. Ma il paragone, a mio parere, deve fermarsi qui. Debenedetti non era un realista puritano come Defoe né un moralista cattolico come Manzoni. Non era neppure un narratore, come tutti e due. Era un critico che apparteneva di diritto alla cultura europea a cavallo tra i due secoli. Cultura, in senso storico, decadente. di cui il meno che si può dire è che era assolutamente impreparata ad affrontare le tragedie di quegli anni. La stessa preferenza di Debenedetti per Proust è significativa. Proust non esiste fuori dalle istituzioni; è uno scrittore “protetto” che ha certamente sottoposto ad analisi originali e accanite le identità ma non le ha mai messe in dubbio; forse, addirittura, il “passato” e la “memoria” di Proust potrebbero essere interpretati come fuga presaga dal “terrore” che si annidava nel presente e, ancor più, nell’immediato futuro. Insomma nessuno era meno adatto di Debenedetti a descrivere la sorte degli ebrei romani, cioè il crollo delle istituzioni e la sostituzione dell’identità col terrore.
E invece, no. Il sottile, il sofisticato, l’intelletualisticoo Debenedetti nelle cinquanta paginette di 16 ottobre 1943 riesce a darci lutto ciò che avremmo potuto aspettarci da uno scrittore della famiglia di Defoe e di Manzoni: sgomento della ragione di fronte alla furia irrazionale, carità religiosa, pietà storica, strazio esistenziale. Ma come è avvenuto tutto questo? In primo luogo, grazie alla letteratura. Debenedetti deve aver capito che non poteva aspettarsi alcun aiuto dal decadentismo intellettualistico e psicologistico; e ha guardato invece ai classici come ai soli modelli possibili. Tuttavia, l’aspetto più interessante di quest’operazione letteraria è che Debenedetti ha ricorso alla classicità da intellettuale raffinato qual era. Cioè raccontando la storia della retata nazista con una patina stilistica leggermente estetizzante. In altri termini nel momento stesso che Debenedetti si liberava dal proprio intellettualismo, lo confermava attraverso la maniera medesima che adottava per liberarsene. A questo punto qualcuno domanderà: ma perché l’estetismo? Rispondo: perché l’arte nelle tombe? L’estetismo, nel caso, vuol dire pietà.
Ma l’estetismo non poteva bastare. Ci voleva anche il dolore. Soffre un critico? Partecipa al dolore del mondo? Ne dubito. Oltre tutto, inevitabilmente, tra lui e il dolore si frappone il diaframma della letteratura. Ora Debenedetti ha avuto il coraggio di abbattere il diaframma e di accettare j1 proprio dolore come «motivo» principale della scrittura. Così dobbiamo vedere nel piccolo libro una vittoria del dolore sulla letteratura. Vittoria difficile che ha permesso alla letteratura di mischiarsi al dolore e di conferirgli l’elevatezza formale della tragedia. Sull’episodio della razzia nazista ho poro da dire che non abbia già detto benissimo Debenedetti. Vorrei soltanto aggiungere che Debenedetti, sia pure attraverso la riscoperta del procedimento classico della coralità, ha toccato in queste pagine il vero punto dolente di tutta la sinistra vicenda. Il razzismo e un’ideologia di massa; e le sue vittime non hanno né debbono avere un volto individuale e riconoscibile, sono anch’esse massa. Il dolore, così, non riguarda soltanto l’ingiustizia ma anche il crollo dei valori umanistici, la fine della parentesi individuale tra la barbarie primitiva e quella avvenire.

ALBERTO MORAVIA

2 comments

    1. Grazie a te del commento, Denise. Ti rispondo con 3 anni di ritardo, ma ho rispolverato questo Blog adesso in seguito alla mia recente pubblicazione. Spero passerai di nuovo da queste parti (: Ciao!

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