Month: January 2020

Ti ho chiamato per nome – Frammenti di un viaggio in Terra Santa

Una vigilia

Sono le 22:45. In Italia sono ancora le 21:45. E’ l’ultimo giorno del 2019.
Mi sveglio nella mia camera d’albergo a Betlemme, dopo aver dormito per circa tre ore. Il programma del pellegrinaggio è ferreo e molto ricco, non ci viene lasciato troppo tempo per riposare, soprattutto alla mattina. Oltretutto, io e Simone stiamo usando almeno tre ore di sonno a notte per parlare di Dio, ciascuno nel proprio letto, guardando il soffitto.
– Allora, cosa cerchi in Terra Santa? – chiede Simone, la seconda notte.
– Non so. Redenzione?
– Perché mai? Hai fatto cazzate?
– Eh sì.
– Va beh, ci sta.
– Sì?
– Ma sì, se vuoi fare una cosa falla. Senza esagerare. Sei libero.
– Mi pare troppo facile. Io sinceramente sento proprio di dover cambiare.
– Ma non devi farlo per forza, devi farlo perché vuoi. Dio non ti ama lo stesso?

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                     Betlemme la notte di capodanno

  Dopo nottate passate sulla falsariga di questi discorsi, avevo bisogno di recuperare almeno un paio d’ore di sonno dopo cena, prima dei festeggiamenti. Non avevo messo sveglie: forse il Signore mi ha destato in tempo per il conto alla rovescia, chissà. Mi alzo intontito, sento una musica ovattata e lontana e il chiasso della gente che si diverte. Ho una strana sensazione sul viso, la bocca impastata e per i primi secondi di veglia ho il dubbio che tutte queste percezioni siano reali. Mi alzo, scosto le tende e guardo fuori: le luci dei lampioni rischiarano le case della Palestina e le illuminano di un colore diverso da quelli che vedo a casa. Mi dico: “Sono in Terra Santa”, come a ricordare a me stesso come non sia una cosa scontata o da dimenticare.

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Gatto di Nazareth. In tutta la Palestina, è raro trovare un gatto che non sia amichevole.

  Terra Santa è un nome più che giusto per una regione che a seconda di come la si chiami si rischia  di schierarsi da qualche parte. Terra Santa, Palestina, Israele.
Israele significa “Colui che lotta con Dio”.
– E’ necessario che lottiate con Dio, che facciate a botte con l’idea che avete di Dio. – ci dice il vescovo il primo giorno, durante l’omelia non proprio breve (ma lo ha detto anche lui che nemmeno l’amore si fa di fretta).

  Cambierà qualcosa qui, in Terra Santa? Quante volte in fondo ho deciso che un determinato momento sarebbe stato quello del cambiamento? Questa volta non faccio così. Ci ho provato troppe volte a cambiare. Forse non si tratta di cambiare, di seguire delle norme. Forse ha ragione Simone, forse c’è dell’altro.

 

Lo stereotipo del pellegrino

Il pellegrino in Terra Santa non può fare a meno di portare con se una testa piena di stereotipi. Anni di catechismo, icone, storie e – soprattutto – film sulla vita di Cristo non possono fare a meno di inculcare una idea di Terra Santa esotica, antica, di pietra e legno, di polvere e luce gialla, piena di persone delle lunghe vesti. Il pellegrino non sciocco tuttavia già immagina che la Palestina sia ragionevolmente diversa dalla sua aspettativa. Tuttavia, egli non può fare a meno di rimanere deluso nel non vedere ciò che si aspettava.

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                                        L’alba su Nazareth

  Per questo motivo, quando il primo giorno visitiamo la città di Nazareth, il luogo non mi entusiasma. Piove, è una bella cittadina ma piuttosto sporca, stretta. Visitiamo la Chiesa di San Gabriele, la Basilica dell’Annunciazione e la Chiesa di San Giuseppe, in cui mi colpisce un quadro che ritrae un Gesù pre-evangelico intento segare un pezzo di legno assieme a suo padre. Una chicca che risponde alla domanda “Che cavolo avrà fatto Gesù Cristo da 12 ai 30 anni?”

  Tuttavia, per quanto mi sforzi non riesco a vedere i resti di una grotta come il luogo in cui la Vergine è stata annunciata, una fontana come il vero luogo in cui Maria andava a prendere l’acqua eccetera eccetera. E sono ben lungi dal sentirmi spiritualmente connesso a Dio grazie al mio essere in questi luoghi, per quanto siano meravigliosi. C’è qualcosa che non va. Nemmeno al pomeriggio, quando raggiungiamo Cana di Galilea, riesco a immedesimarmi nel mistero dell’acqua trasformata in vino. Di certo, il marketing che impone l’apertura di una enoteca ogni due metri non aiuta.

 

Cattedrali d’acqua

Tuttavia, il secondo giorno accade qualcosa di strano. Usciamo dalla città, fuori dal bus si estendono le campagne e le praterie, la vegetazione bassa interrotta dalle palme, tutti i colori che vedo hanno la sfumatura della terra. Il paesaggio comincia a coincidere con le aspettative. Raggiungiamo gli Scavi di Cafarnao e il Lago di Tiberiade. Qui Cristo camminò sulle acque. Qui gli apostoli pescavano. Qui avranno anche fatto il bagno qualche volta, tutti assieme. E’ lui, il lago è questo, non possono esserci speculazioni e tradizioni di sorta. Davanti a me si estende una vastità d’acqua ed un paesaggio che probabilmente valgono, spiritualmente parlando, più di tutte le cattedrali più ricche del mondo. La vaga delusione del primo giorno affoga in queste acque: eccolo qua, Dio. Mi viene in mente subito una vecchia battuta di
Rat-Man:
– Sto cercando Gesù.
– Ah, un grande cammino interiore.
– No. Era qui un attimo fa.

   Non appena ci viene dato un momento libero, mi allontano e mi avvicino alla riva. Eccolo qua, Cristo. Sorrido, mi lavo il viso con quell’acqua. Ne bevo un piccolo sorso. Proverò a fare la stessa cosa qualche giorno dopo, durante il bagno presso il Mar Morto, ma non sarà una buona idea. Una goccia sulla punta della lingua basta per farmi schiumare la bocca per bel po’.

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Lago di Tiberiade

 

Lo stereotipo al muro

Il pellegrino in Terra Santa non può fare a meno di aspettarsi una rivelazione, una conversione improvvisa, un cambiamento generato dal fatto stesso di essersi recato in qui. Il pellegrino non sciocco tuttavia sa già che la Terra Santa non basterà, se il cuore non è ben disposto nei confronti di Dio. Tuttavia, egli non può fare a meno di rimanere deluso nel vedere che questa rivelazione stia tardando ad arrivare. 

   Ricordo molto bene l’arrivo a Betlemme durante il quarto giorno di pellegrinaggio. Il viaggio da Nazareth fu lungo e accompagnato dalla spiegazione di Fra Mirco sulla genesi del conflitto Israelo-Palestinese. E man mano che raggiungiamo il confine, le conseguenze di quel conflitto cominciavano a vedersi. Un lunghissimo muro bianco accompagna il tragitto in autostrada. Per due volte, un autocarro supera il nostro bus: entrambi stanno trasportando un carro armato. In lontananza, sulle colline, si vedono degli edifici bianchi che spiccano molto rispetto agli altri: sono le colonie nei territori occupati. Una volta arrivati nella piazza principale di Betlemme,  si respira subito un’aria differente da Israele: il muezzin intona la sua preghiera del pomeriggio dalla moschea, bambini scalzi girano cercando di vendere qualche caramella, con fare supplichevole e insistente. Mi allontano dal gruppo e raggiungo una edicola con fuori diversi espositori: sono pieni di immagini satiriche sulla guerra, sull’occupazione. Ci sono cartoline con le opere di Bansky, una immagine tragicomica con i magi che scavano sotto alle mura per poter raggiungere Betlemme, Papa Francesco che prega appoggiato al muro, una serie di cartine che mostrano l’assottigliarsi dei territori in mano alla Palestina nel tempo. E poi immagini più forti, immagini di una madre col figlio in braccio, macerie, dolore.

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Immagine di Papa Francesco (2014) presso il muro, presente in una delle cartoline.

Non mi sto schierando con Israele o con la Palestina. Ma quelle immagini fanno vedere le vittime di tutto ciò, fanno vedere le persone.  I vinti, i veri vinti. A quel punto le lacrime mi salgono agli occhi. La commozione è arrivata, non in un luogo sacro, non nel punto esatto dove 2000 anni prima è successa la cosa più importante per l’umanità. Siamo arrivati ormai a metà pellegrinaggio, e la commozione è arrivata solo ora, davanti ad un paio di cartoline. Anche in queste lacrime c’era Dio.

 

La preghiera del silenzio

Dio, a quanto pare, mi riesce meglio di incontrarlo presso tutte quelle cose che ha creato di suo pugno. Distese d’acqua, monti o come in questo caso, distese di sabbia.
Il Deserto di Giuda è un deserto roccioso che risponde ad una domanda che mi feci tempo fa durante la Via degli Dei, ammirando un paesaggio: “Cosa sarebbero queste montagne senza gli alberi?”. E’ un luogo severo che a Gennaio lascia trapelare qualche segno di indulgenza: qualche ciuffo d’erba verde qua e là, temperature gradevoli. E’ un paesaggio che annulla la prospettiva, rasentando la metafisica. Quando lasciamo il Monastero di Mar Saba, c’è un sentiero lungo due ore da percorrere  e ci hanno chiesto di farlo rimanendo in silenzio, pregando, ragionando con noi stessi.

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Deserto di Giuda

   Non so se sia stata una cosa pensata appositamente, ma le nostre guide ci hanno proposto questo momento di silenzio la mattina di Capodanno, quando ancora le orecchie fischiano leggermente per la musica troppo alta dei festeggiamenti della sera prima. Mi ritorna in mente la musica, i balli sfrenati, i calici di spumante. Il lento che ho ballato con una ragazza a fine serata. Il ballo ha una componente molto umana e spirituale, ed è un peccato che i locali da ballo di oggi distruggano tutto questo. Il clima della discoteca ti forza a desiderare il corpo della donna con la quale stai ballando, il lento invece è massimo rispetto per il proprio corpo e per quello degli altri.
Per la prima volta ballo con una donna per la bellezza di ballarci assieme. Non c’è malizia, non c’è desiderio. E’ come ballare con Dio, o con Sua Madre.
– Hai ragione, Roberto. – mi dice il vescovo quando gli parlo di questa cosa – Pure io lo dico sempre a queste ragazze che nei loro volti vedo il viso della Vergine!
Le ragazze attorno lo sentono e ridono, il vescovo insiste che non sta scherzando; io penso che il vescovo sia fortunato se riesce a vedere ciò, e penso anche che se ogni uomo vedesse la stessa cosa nel viso di una donna, ci sarebbero molti meno problemi.

   Ma torniamo al nostro deserto da percorrere pregando senza aprire bocca.
– Come si fa a pregare? Io non saprei nemmeno cosa dire. – mi chiese una volta una persona a me molto cara. Come avrei potuto rispondere? Quando preghiamo non la smettiamo mai di borbottare. Qui invece c’è un silenzio assoluto da rispettare, si è con se stessi e con i propri passi, nessuna distrazione.
   Attorno a noi c’è il vuoto: la paura cresce man mano che quel vuoto comincia a coincidere con quello che ci si ritrova dentro di sé, una volta lasciati soli con noi stessi. Si avrebbe la tentazione di colmare quel vuoto con la prima vanità disponibile, ma il cellulare nel deserto non prende, il proprio vicino è assorto anche lui nel suo silenzio e spezzarlo ora sembra un crimine. Si può fare solo una cosa, una cosa che abbiamo dimenticato di fare da tempo: accettare il dolore, percepirlo fino in fondo.
Siamo stati abituati ad anestetizzare il dolore in ogni maniera possibile: comprando oggetti, drogandoci, lavorando, ubriacandoci, innamorandoci, perdendo ore davanti ad uno schermo. Cerchiamo tutti i modi per non percepire il dolore di fondo che sempre ci accompagna. Ora invece, quel dolore vorrei assaporarmelo e scoprilo, comprenderlo. Solo a partire da questo si può guarire, si può incontrare Dio solo chiedendo a Lui di riempire quel nostro vuoto.
E’ per questo motivo se alla fine pellegrinaggio, quando un ragazzo dice a tutti “Dovete essere dei cristiani felici! Dovete sorridere!” mi fa girare le scatole. Io non devo essere sempre felice, non devo essere felice per forza. In una società che mette al bando il dolore e che fa di tutto per nasconderlo agli occhi, essere malinconici è un atto di ribellione. Ho tutto il diritto di essere cristiano e malinconico, ho tutto il diritto di godermi la mia tristezza senza anestetici: nemmeno l’oppiaceo della preghiera è concesso. Devo scavare nel mio dolore e trovare Dio là dentro, essere felice a partire da questo. Devo trattare il prossimo con gentilezza e gioia nonostante io stia portando dentro questo masso che solo Dio può sollevare. Nemmeno Cristo sulla croce ha accettato l’aceto come narcotico: ha esaurito la sua sofferenza fino in fondo.
In fondo anche Simone, alle due e mezza di notte nel secondo giorno del pellegrinaggio, mi ha detto:
   – Quando pensi di incontrarlo Dio, se non quando ti tira fuori dalla merda?
   Il cammino si conclude con suor Serena che mi corre dietro: si è ricordata che volevo parlarle. Non le parlo da dieci anni, da quando la incontrai per la prima volta alle scuole medie. Poi l’ho persa di vista, ma è un personaggio che mi è sempre rimasto impresso. Ci scambiamo parole franche di cui il deserto rimane tuttora custode.

Il tappo

Se mi dimentico di te, Gerusalemme,
si dimentichi di me la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

Così recita il Salmo 137, e forse è per evitare che mi si attacchi la lingua al palato che oggi scrivo queste righe. Per ricordare. Le emozioni provate a Gerusalemme, quella atmosfera di rinnovamento che si provava laggiù rischiano di fermentare all’improvviso, per poi affogare nella quotidianità, nello stillicidio di giorni che ricominciano a sovrapporsi uno sull’altro non appena tornati a casa.

   Quanti luoghi sto scordando? Di quanti luoghi e di quante sensazioni non ho parlato in questo piccolo articolo? Il Santo Sepolcro e la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, Gerusalemme tutta, piccola grande perla dorata, Magdala e la meravigliosa Boat Chapel con quella vetrata che dava sul lago dietro l’altare a forma di barca, il Monte Tabor, la Grotta della Natività, San Pietro in Gallicantu, che altro? Quanto da ricordare, quanto paurosamente facile è dimenticarne. Bisogna risvegliare la memoria, ricordare è una necessaria forma di preghiera. Ricordare soprattutto che in Terra Santa io ho seguito il consiglio del vescovo e ho lottato con Dio, con l’idea che avevo di lui. Dopo aver fatto a botte col Dio del rito e col Dio della norma, in Terra Santa ho intravisto il Dio dell’amore. E guai a dimenticarsi di questo Dio.